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La
rivelazione di Maometto
PIETRO CITATI
Passati i quarant'anni, Maometto ebbe le
prime visioni. La notte gli compariva in sogno una figura enorme, e sconosciuta,
che con la testa toccava il cielo e con i piedi la terra, e si avvicinava per
afferrarlo. Durante il giorno, mentre camminava per la campagna sentiva delle
voci uscire dai sassi, dai muri e dai ventri degli animali: voci che gli
dicevano: «Salute, o apostolo di Dio».
Il divino gli si presentava come l'esperienza del tremendo: una forza che non
aveva nome, che poteva venire da tutte le parti, che non aveva nulla a che fare
col bene, che era solo contraddistinta dalla propria potenza, irrompeva sopra di
lui, lo afferrava, lo dominava, e voleva soggezione senza limiti. Maometto aveva
terrore di queste voci e di queste visioni. Era sconvolto da brividi di freddo o
si copriva di sudore: strani suoni di campana o fruscii di lontane ali
celestiali o fragori gli risuonavano nella mente, e restava a terra senza
coscienza.
Come confessò più tardi, gli sembrava che qualcuno infinitamente possente gli
stesse strappando l'anima a pezzi. Diventò inquieto: temeva di impazzire o di
essere posseduto da un demone: «O Hadigah - disse alla vecchia moglie - temo di
diventare pazzo». «Perché», gli domandò lei. «Sento in me i segni degli
indemoniati: voci misteriose per le strade, figure enormi nel sonno». Hadigah
gli rispose: «O Maometto, non inquietarti. Con le qualità che hai, tu che non
adori gli idoli, tu che ti astieni dal vino e dal vizio, che fuggi la menzogna,
che pratichi la probità, la generosità e la carità, non hai nulla da temere.
Dio non ti lascerà cadere sotto il potere dei demoni».
Spesso Maometto lasciava la città, e saliva in una caverna sulle colline di
alHira, passando le notti nella meditazione e nell'adorazione, come un monaco
cristiano.
Una notte, mentre stava dormendo, la figura enorme dei primi incubi gli si
presentò di nuovo in sogno. Aveva in mano un copriletto di broccato: sopra
c'era scritto qualcosa. Gli disse: «Leggi». Maometto rispose: «Cosa mai devo
leggere?». La figura lo strinse con tanta forza che Maometto pensò di morire.
Tre volte gli impose: «Leggi!», tre volte Maometto rifiutò; finché, soltanto
per liberarsi, rispose: «Cosa devo dunque leggere?». L'altro rispose:
«Leggi in nome di quel Dio che creò,
che creò l'uomo da un grumo di sangue.
Leggi! Il tuo Signore è il più generoso,
ha insegnato per mezzo del calamo,
ha insegnato all'uomo quello che non sapeva».
Secondo la tradizione islamica, erano i primi versi del Corano. Maometto lesse,
e la figura si allontanò da lui. Si svegliò, e le parole erano scritte nel suo
cuore. Aveva ripetuto l'esperienza di Ezechiele e di Giovanni nell'Apocalisse.
Qualcuno gli aveva imposto con la violenza uno scritto vergato in un altro
mondo: Ezechiele e Giovanni l'avevano ingoiato; lui l'aveva fatto diventare
parte del cuore e del corpo. Soltanto attraverso questa totale appropriazione
fisica, la rivelazione celeste era divenuta Apocalisse, e ora sarebbe divenuta
Corano. Ezechiele e Giovanni avevano accettato senza timore il libro dal sapore
dolceamaro, certi del suo carattere sacro. Più dubbioso, inquieto e consapevole
dell'ambiguità della parola ispirata, Maometto non osava accettare la
rivelazione. Temeva di essere un «poeta estatico» o un «uomo posseduto»: uno
di quei kahin, che in Arabia profetavano ispirati dai demoni.
Travolto dall'angoscia avrebbe voluto uccidersi, e cercò di precipitarsi dalla
collina. In quel momento, udì una voce dal cielo. Girò la testa, e scorse
l'angelo Gabriele, con i piedi a cavalcioni sull'orizzonte, che diceva: «O
Maometto, tu sei l'apostolo di Dio e io sono Gabriele!». Rimase stupito: girò
la faccia dall'altra parte, e verso qualunque luogo del cielo guardasse,
dovunque spingesse gli occhi ansiosi, scorgeva il corpo del grande angelo.
Gabriele lo prese dolcemente tra le ali, in modo che non potesse muoversi, e gli
ripeté: «Non temere, tu sei il profeta di Dio, e io sono Gabriele, l'angelo di
Dio».
Maometto discese dalla collina: tremava in tutto il corpo per il terrore della
rivelazione, ma ripeteva tra sé le frasi di Gabriele, le prime frasi di quello
che sarebbe diventato il suo libro, che cominciavano a rassicurarlo. Tornò a
casa, raccontò la visione a Hadigah, e le disse le parole dell'angelo. Poi fu
ancora colto dal freddo e chinò la testa chiedendo: «Coprimi. Coprimi!». La
moglie lo avvolse in un mantello, e lui si addormentò al suolo, come un bambino
terrorizzato. Hadigah andò da un vicino. Mentre Maometto dormiva, Gabriele entrò
nella casa e gli parlò: «Alzati, tu che sei coperto con un mantello».
Maometto si risvegliò e rispose: «Eccomi, che debbo fare?». E Gabriele: «Alzati
e avverti gli uomini e chiamali a Dio». Maometto gettò via il mantello e si
alzò. Quando la moglie tornò, gli disse: «Perché non dormi, e non ti riposi?».
Maometto rispose: «Il mio sonno e il mio riposo sono finiti. Gabriele è
tornato, e mi ha ordinato di trasmettere il messaggio di Dio agli uomini».
[* * *]
Nella rivelazione di Dio a Maometto, come la raccontano Ibn Ishaq, Tabari e la
tradizione antica, qualcosa di sublime e di unico, una grandiosa esperienza
originaria, tocca la linea dei semplici fatti umani. Molti hanno fantasticato su
quale avrebbe potuto essere la vita di Maometto, se la visione l'avesse occupato
completamente, ed egli si fosse accontentato di ascoltare senza fine la Voce,
come un mistico, senza uscire dalla caverna. Ma Maometto discese dalla caverna,
e conquistò la terra. Dopo di allora, continuò a vivere nel sacro: il
sovrannaturale riempiva la sua esistenza; Dio gli rivelava tutte le cose, anche
il luogo dove si era perduto un cammello nel deserto o dove si era impigliata la
sua briglia.
Il sacro non trasformò Maometto. Lasciò che egli abitasse nel suo mondo
totalmente umano, tra passioni totalmente umane, come se il compito del sacro
fosse non di trasformare il mondo, ma consacrarlo com'è, nella sua realtà
quotidiana. Qualche secolo dopo, i mistici sufi sostennero che Maometto dovette
superare una grande difficoltà, per uscire dalla caverna e adattarsi alla vita
di ogni giorno. Nel racconto degli scrittori antichi, Maometto non conobbe
invece né difficoltà né prove. Per loro, la sua esperienza religiosa e quella
di capo politico, che a un lettore dei Vangeli sembrano inconciliabili, non sono
divise da nessuna frattura e da nessuna opposizione. Il visionario imbracciò la
spada, senza dimenticare la visione che l'aveva sconvolto.
L'antica tradizione islamica non tenta nessuna di quelle idealizzazioni, che
qualsiasi agiografo occidentale avrebbe compiuto. Ora Maometto si vendica di chi
lo ha offeso, fa massacrare tribù di ebrei, assale a tradimento i nemici,
infierisce sui morti: ora è tollerante e indulgente come il più accorto uomo
politico. Sullo sfondo, Tabari mette in scena una indimenticabile
rappresentazione dell'Arabia del VI e del VII secolo: cammelli, cavalli,
montoni, odore di sterco, di sudore e di rovina; povertà, fame, miseria,
vagabondaggio; beghe tribali, liti femminili, pettegolezzi, chiacchiere di
mercanti, carovane che attraversano il deserto, agguati presso i pozzi, feroci
battaglie di predoni, donne che mangiano la lingua e il fegato dei nemici.
* * *
Nella primavera del 632, ventidue anni dopo la rivelazione, Maometto si ammalò.
La mattina dell'8 giugno, si sentì meglio. Al momento della preghiera, si alzò,
sollevò la tenda che serviva da porta alla capanna della moglie prediletta,
A'isah, e si fermò sulla soglia. Lì accanto c'era la moschea - un povero muro
di mattoni essiccati al sole, coperti da rami di palma -, dove i suoi fedeli
dicevano le orazioni. Quando lo videro, interruppero la preghiera per la gioia;
ma egli fece un cenno con la mano, invitandoli a continuare. Era felice: il suo
viso si illuminò e splendette; disse: «Grazie siano rese a Dio, perché, dopo
la mia morte, il mio popolo seguirà le mie istituzioni». Qualcuno affermò di
non averlo mai visto così bello.
Dopo pochi minuti, Maometto ritornò nella capanna di A'isah, e si distese sul
cuscino. Entrò un parente di Abu Bakr; aveva in mano un ramoscello verde, con
cui si puliva i denti: Maometto lo guardò; la moglie capì il desiderio del
marito, prese un altro ramoscello, la masticò, lo rese tenero, e glielo porse.
Quando Maometto cominciò a fregarsi i denti con vigore, A'isah gli disse: «Non
strofinarti troppo forte i denti, se no te li guasti». Egli rispose: «O
A'isah, Gabriele mi ha sempre raccomandato di fare così».
Appena ebbe terminato le preghiere, Abu Bakr, corse nella capanna di A'isah,
dove vide il Profeta che si puliva i denti. Pensò che fosse guarito. Cercando
di farlo ridere, si mise a scherzare con A'isah: «Ora che il Profeta è
guarito, dovrà passare questa notte nell'appartamento di un'altra moglie».
A'isah si offese e rispose: «Quando era malato, è stato con me. Ora che è
sano, andrà nella capanna di un'altra donna?».
Maometto rise, ma restò in silenzio. Poco dopo, si sentì morire. A'isah si
sedette dietro di lui, l'attrasse e gli prese la testa sul seno. Maometto rimase
così qualche tempo. Verso mezzogiorno, la fronte cominciò a sudare, lo sguardo
diventò fisso: mentre A'isah lo udiva mormorare: «No, l'Amico sommo del
Paradiso...».
Lo spazzolino verde di salvadora persica: l'angelo Gabriele che insegna l'arte
di pulire i denti: gli scherzi volenterosi e salaci di Abu Bakr: la gelosia di
A'isah; il riso silenzioso di Maometto... Nessuna morte meglio di questa,
raccontata dalla tradizione islamica, può adattarsi all'uomo che visse con
tanta gioia e pienezza nel grembo infimo e illimitato della vita quotidiana.
(Nota. Nato nell'839, Muhammad Ibn Garir AlTabari compose le Notizie dei Profeti
e dei Re, da cui il vizir persiano Bal'ami trasse un compendio. Una parte delle
Notizie, dedicata a Maometto, è stata pubblicata nella Bur).
DA LA REPUBBLICA 11/10/01
IL
TEATRO DELL'ORRORE
JOHN LE CARRE
Otto ottobre 2001. «Via al bombardamento»
strilla oggi in prima pagina il Guardian, normalmente misurato. «Battaglia
ingaggiata» gli fa eco l'altrettanto prudente Herald Tribune citando George W.
Bush. Ma ingaggiata con chi? E come finirà? Che ne dite di Osama Bin Laden in
catene, più sereno e somigliante a Cristo che mai, accusato di fronte a una
tribuna di suoi dominatori con Johnny Cochrane a difenderlo?
Le parcelle non sarebbero un problema, questo è certo. Oppure un Bin Laden
ridotto in briciole da una da quelle bombe intelligenti che, come continuiamo a
leggere, uccidono i terroristi nelle grotte senza rompere le stoviglie. O forse
esiste una soluzione che mi è sfuggita e che ci impedirà di trasformare il
nostro arcinemico in un arcimartire agli occhi di coloro per i quali è già un
semidio?
Eppure dobbiamo punirlo. Dobbiamo consegnarlo alla giustizia. Come tutte le
persone assennate, anch'io non vedo alternative. Inviamo pure cibo e medicine,
forniamo aiuti, ramazziamo rifugiati affamati, orfani mutilati e membra umane,
scusate, il "danno collaterale", ma Bin Laden e i suoi uomini
orribili, non abbiamo scelta, vanno scovati.
Sfortunatamente al momento quello che l'America brama, persino al di sopra della
vendetta, sono più amici e meno nemici, ma è di più nemici che sta facendo
scorta, come noi britannici, perché malgrado tutte le lusinghe, le minacce e le
promesse che hanno rabberciato la coalizione traballante, non possiamo impedire
che nasca un nuovo attentatore suicida ogni volta che un missile mal indirizzato
spazza via un villaggio innocente e nessuno può dirci come sottrarci a questo
ciclo infernale di disperazione, odio e, ancora una volta, vendetta.
Le riprese televisive e le foto fatte ad arte di Bin Laden danno l'idea di un
uomo dal narcisismo omoerotico, e forse possiamo trarre da questo un granello di
speranza. Ritratto con un Kalashnikov, mentre partecipa ad un matrimonio o
consulta un testo sacro, egli irradia da ogni gesto autoadorante una
consapevolezza dell'obiettivo degna di un attore. Possiede statura, bellezza,
grazia, intelligenza e magnetismo, tutti grandi attributi a meno che tu non sia
il latitante più ricercato del mondo in fuga, nel qual caso diventano handicap
difficili da dissimulare. Ma ai miei occhi stanchi supera tutto la sua vanità
maschile, a stento contenibile, la sua brama di autodramma e la sua passione
segreta per la ribalta. E forse proprio questo tratto lo porterà al crollo,
seducendolo ad un drammatico atto finale di autodistruzione, prodotto, diretto e
interpretato fino alla morte da Osama Bin Laden in persona.
Secondo le regole riconosciute della militanza terroristica, naturalmente, la
guerra è già persa da tempo. Da noi. Quale vittoria potrebbe eguagliare le
sconfitte che abbiamo già subito, per non parlare di quelle che ci aspettano?
"Il terrore è teatro", mi disse nel 1982 a Beirut un agitatore
palestinese dal tono gentile. Si riferiva all'omicidio degli atleti israeliani
alle Olimpiadi di Monaco, ma avrebbe potuto benissimo riferirsi alle Torri
gemelle e al Pentagono. Il povero Bakunin, evangelista dell'anarchia, amava
parlare di Propaganda dell'Atto. E' difficile immaginare atti di propaganda più
potenti di questi.
Ora Bakunin è nella tomba e Bin Laden nella sua grotta si starà fregando le
mani per la gioia mentre noi ci imbarchiamo proprio in quel processo che tanto
fa gola ai terroristi del suo stampo, cioè raddoppiamo in fretta e furia le
forze di polizia e di intelligence accordando loro ampi poteri, sospendiamo i
diritti civili fondamentali e limitiamo la libertà di stampa, imponiamo
blackout di informazione e censura segreta, ci spiamo e, tocchiamo il fondo
violando moschee e dando la caccia per strada a cittadini sfortunati perché il
colore della loro pelle ci spaventa.
Tutte le paure che condividiamo mi fido a prendere l'aereo? Dovrei parlare alla
polizia di quella strana coppia del piano di sopra? Non sarebbe più sicuro non
passare davanti a Whitehall questa mattina? Mio figlio tornerà sano e salvo da
scuola? I miei risparmi sono crollati? sono esattamente le paure che i nostri
assalitori vogliono che abbiamo.
Fino all'11 settembre agli Stati Uniti non sembrava vero di potersela prendere
con Vladimir Putin per la carneficina in Cecenia. La violazione dei diritti
umani nel Caucaso settentrionale, gli veniva detto stiamo parlando di tortura di
massa e di un numero di omicidi corrispondente ad un genocidio, opinione
generalmente condivisa costituiva un ostacolo a stabilire relazioni più strette
con la Nato e gli Usa. Si sono persino levate voci tra cui la mia a proporre che
Putin raggiungesse Milosevic all'Aja: facciamone due in un colpo. Beh, possiamo
dire addio a tutto questo. Nella composizione della nuova grande coalizione
Putin sembrerà un santo in confronto ad alcuni dei suoi compagni di branda.
Chi si ricorda più il grido di protesta contro quello che veniva percepito come
il colonialismo economico del G8? Contro il saccheggio del Terzo mondo da parte
di compagnie multinazionali incontrollabili? Praga, Seattle e Genova ci hanno
presentato scene sgradevoli di teste rotte, vetrine infrante, violenza teppista
e brutalità da parte della polizia. Blair ne è stato profondamente scioccato.
Però si trattava di un dibattito valido, finché non è stato soffocato da
un'ondata di senso patriottico, abilmente sfruttato dall'America dei grandi
gruppi industriali.
Tirate in ballo Kyoto in questi giorni e rischiate l'accusa di antiamericanismo.
E' come se fossimo entrati in un nuovo mondo orwelliano in cui la nostra
personale credibilità come compagni di lotta è determinata dalla misura in cui
evochiamo il passato per spiegare il presente. Suggerire un contesto rispetto
alle recenti atrocità significa, implicitamente giustificarle. Chi è con noi
non lo fa. Chi lo fa, è contro di noi.
Dieci anni fa sembravo un idealista noioso dicendo a chiunque fosse disposto ad
ascoltarmi che, con la guerra fredda alle spalle, stavamo perdendo una
possibilità irripetibile di trasformare la comunità globale. Invocavo un nuovo
piano Marshall. Dov'era? Perché gli uomini e le donne dei corpi di pace
americani, del servizio volontario oltreoceano e i loro equivalenti europei non
si riversavano a migliaia nell'ex Unione Sovietica?
Dov'era lo statista di livello mondiale, l'uomo del momento, con la voce e la
visione necessarie a individuare per noi quelli che, pur mancando di fascino,
sono i veri nemici dell'umanità: povertà, carestia, schiavitù, tirannia,
droga, guerriglia, intolleranza razziale e religiosa, avidità?
Ora da un giorno all'altro, grazie a Bin Laden e ai suoi luogotenenti, tutti i
nostri leader sono statisti di livello mondiale, e proclamano le loro opinioni e
visioni in aeroporti lontani mentre imbottiscono di piume i loro nidi
elettorali.
Ci sono stati infelici riferimenti, non solo da parte del Signor Berlusconi, ad
una crociata. L'uso del termine crociata implica una deliziosa ignoranza della
storia. Berlusconi proponeva davvero di liberare i luoghi sacri della cristianità
e sbaragliare gli infedeli? O forse lo proponeva Bush? E io ho qualche rotella
fuori posto se faccio presente che in realtà le crociate le abbiamo perse? Ma
va tutto bene, il Signor Berlusconi è vittima di una citazione scorretta e il
riferimento presidenziale non è più operativo.
Intanto Mr. Blair procede di buon passo nel suo nuovo ruolo di impavido
portavoce dell'America. Blair parla bene perché Bush parla male. Visto
dall'estero Blair in questa alleanza è lo statista più anziano, ispirato,
dotato di inattaccabile potere interno, mentre Bush si può dire oggi? è stato
a malapena eletto.
Ma che cosa rappresenta esattamente Blair, lo statista di esperienza? Entrambi
gli uomini in questo momento godono di un altissimo livello di consensi nei
sondaggi, ma sono entrambi consapevoli, se conoscono i libri di storia, che i
grandi consensi della prima ora di una rischiosa operazione militare oltreoceano
non garantiscono la vittoria elettorale.
Quante "body bag", quanti cadaveri americani può reggere Bush senza
perdere il sostegno popolare? Dopo gli orrori delle torri gemelle e del
Pentagono, il popolo americano può volere vendetta, ma si trova a un passo dal
versare altro sangue americano.
Mr. Blair tutto il mondo occidentale glielo dice, fatta eccezione per qualche
voce acida in patria è l'eloquente cavaliere bianco dell'America, il fedele
impavido campione di quel bimbetto perennemente gracile del medio atlantico che
è la Relazione Speciale.
Se questo guadagnerà a Blair il favore dell'elettorato è un'altra questione,
perché Blair fu eletto per salvare il paese dalla decadenza, non per Osama Bin
Laden. La Gran Bretagna che sta portando alla guerra è un monumento a
sessant'anni di incompetenza amministrativa. I nostri sistemi sanitario,
scolastico e dei trasporti sono in malora. La definizione attualmente in voga a
questo proposito è "da terzo mondo", ma ci sono luoghi del terzo
mondo che se la passano molto meglio della Gran Bretagna.
La Gran Bretagna che Blair governa è afflitta da razzismo istituzionalizzato,
predominio maschile, forze di polizia amministrate in modo caotico, un sistema
giudiziario costipato, oscena ricchezza privata e vergognosa e inutile povertà
pubblica. Al tempo della sua rielezione, caratterizzata da una misera
partecipazione, Blair riconobbe queste magagne e ammise umilmente di essere
sotto esame per sanarle.
Così quando cogliamo nella sua voce il nobile fremito mentre ci conduce con
riluttanza alla guerra, e il nostro cuore si solleva ai suoi convinti svolazzi
retorici, vale la pena di ricordare che potrebbe anche avvertirti, sotto voce,
che la sua missione nei confronti dell'umanità è talmente importante che
dovrai aspettare ancora un anno per quell'intervento chirurgico urgente e molto
di più per poter prendere un treno sicuro e in orario. Non sono certo che
questa sia roba da vittoria elettorale tra tre anni. Osservando Blair e
ascoltandolo non posso fare a meno di avere l'impressione che stia un po' come
in sogno, e si avvii verso la fossa dei leoni.
Ho detto guerra? Mi chiedo se Blair o Bush abbiano mai visto un bambino saltare
in aria o siano stati testimoni dell'effetto di una sola bomba a grappolo
sganciata su un campo rifugiati privo di protezioni. Per diventare generali non
è assolutamente necessario aver visto cose così orribili, e non auguro a
nessuno dei due l'esperienza. Ma mi sgomenta lo stesso la vista di volti
politici intonsi in cui brilla la luce della battaglia e sentire le loro voci preppy
indurire il mio cuore per la lotta.
La supplico, Mr. Bush, la prego in ginocchio, Mr. Blair, tenete Dio fuori da
tutto questo. Immaginare che Dio combatta delle guerre significa attribuirgli le
peggiori follie dell'umanità. Dio, se sappiamo davvero qualcosa di Lui, pretesa
che non ho, preferisce veri lanci di scorte alimentari, squadre mediche
specializzate, tende confortevoli per i senzatetto e chi ha perso i suoi cari,
aiuti senza vincoli, una corretta ammissione degli errori del passato e la buona
volontà di porvi rimedio. Lui ci preferisce meno avidi, meno arroganti, meno
evangelici e meno duri nel mettere al bando i perdenti della vita.
Non si tratta di un nuovo ordine mondiale, non ancora, e non è la guerra di
Dio. E' un'orribile, necessaria, umiliante azione di polizia per rimediare al
fallimento dei nostri servizi di intelligence e alla nostra stupidità cieca
nell'armare e sfruttare i fanatici islamici per combattere l'invasore sovietico,
per abbandonarli poi ad un paese devastato e privo di guida. Ne risulta il
nostro miserevole dovere di scovare e punire un gruppo di zeloti religiosi da
moderno medioevo che acquisteranno statura mitica proprio dalla morte che ci
proponiamo di servirgli in tavola.
E dobbiamo proprio fargli questo favore, come è certo che dobbiamo provvedere
ai milioni di persone che muoiono, hanno fame e che, almeno numericamente se non
in termini di valori mediatici occidentali, stanno per diventare le principali
vittime innocenti di questa tragedia.
E quando finirà, non sarà finita. Le armate ombra di Bin Laden, nelle
conseguenze emotive della sua distruzione, raccoglieranno numeri, piuttosto che
indebolirsi. Altrettanto farà il retroterra dei simpatizzanti silenziosi che
forniscono loro il supporto logistico. Con cautela, tra le righe, siamo invitati
a credere che la coscienza dell'Occidente si è ridestata riguardo al dilemma
dei poveri e dei senzatetto della terra. E forse, oltre la paura, la necessità
e la retorica, è nato davvero un nuovo genere di moralità politica. Ma quando
le sparatorie cesseranno e si sarà arrivati ad una pace apparente, gli Stati
Uniti e i loro alleati rimarranno al proprio posto o, come è accaduto al
termine della guerra fredda, appenderanno al chiodo gli stivali e se ne andranno
a casa a curare il proprio orticello? Anche se quegli orticelli non saranno mai
più i porti sicuri che erano una volta.
JOHN LE CARRE
DA LA REPUBBLICA 11/10/01
SULLA
TOLLERANZA
di UMBERTO ECO
Caro direttore,
sono stato molto toccato dalle lettere di adesione al mio articolo sulle Guerre
Sante, che avete pubblicato ieri, e ringrazio tutti coloro che hanno voluto
esprimere il loro consenso. Vorrei solo intervenire su una lettera in cui appare
una obiezione che ho udito più volte quando si apriva un discorso sulla
tolleranza, e cioè che questo termine debba venire inteso (come accade nel
linguaggio comune) come sopportazione di qualcuno che ci è inferiore. In tal
senso infatti diciamo di tollerare un importuno o uno sciocco. Debbo dire che
anche il termine che si propone in cambio, "rispetto", ha duplice
valenza: io ho grande rispetto di persone per cui nutro ammirazione, ma posso
rispettare (perché sono indulgente o democratico) il diritto degli sciocchi a
esprimere le proprie opinioni. Capisco altresì che il termine tolleranza, per
molti, evochi soltanto le case di tollerantissima memoria.
Ma forse si dimentica che tolleranza è diventato, nella storia del pensiero
moderno, termine politico e filosofico, e si pensi alla Epistola sulla
tolleranza di Locke o al Trattato sulla tolleranza di Voltaire. E' in questo
senso che la parola acquista la sua grande e storica dignità. Infatti il
Dizionario della lingua italiana della Treccani tra le accezioni di tolleranza
pone: "atteggiamento teorico e pratico di chi, in fatto di religione,
politica, etica, scienza, arte e letteratura, rispetta le convinzioni altrui,
anche se profondamente diverse da quelle a cui egli aderisce, e non ne impedisce
la pratica estrinsecazione".
Dal canto proprio il Dizionario di Filosofia di Abbagnano, definendo la
tolleranza come norma o principio della libertà religiosa, recita: "Si è
ritenuto talora poco adatto a designare questo principio un termine che
significa ‘sopportazione'; ma in realtà la parola è stata l'emblema di
quella libertà sin dalle prime lotte che essa è costata e attraverso le quali
si è venuta affermando in forme che sono ancor oggi deboli e incomplete. Nessun
altro termine potrebbe perciò sostituirla".
DA LA REPUBBLICA 11/10/01
La
condizione dell'angoscia
LE IDEE
UMBERTO GALIMBERTI
TRA le lettere pubblicate da «Repubblica»
a commento del bellissimo articolo di Umberto Eco ce n'era una lapidaria: «Ma
io ho paura». Sì, effettivamente questo era il vero obiettivo dell'azione
terroristica che ha distrutto qualcosa di più delle due torri di Manhattan e
della base del Pentagono, qualcosa di più dei seimila morti.
L'azione terroristica ha incrinato in noi occidentali quella condizione base
della vita quotidiana che è la prevedibilità del domani, senza la quale non
prende avvio nessuna iniziativa, e le azioni che abitualmente ci impegnano
ricadono su se stesse, perché hanno perso importanza, spessore, investimento,
valore.
Al loro posto è subentrata sottile e pervasiva, come condizione dell'anima,
quell'angoscia primitiva, per difendersi dalla quale l'uomo occidentale ha
inventato la sua storia. Quest'angoscia si chiama: «Angoscia dell'imprevedibile»
.
La chiamo «angoscia» e non «paura» , perché la paura è un ottimo
meccanismo di difesa che la natura ci ha messo a disposizione per difenderci dai
pericoli «visibili» e «determinati», per cui, all'avvicinarsi di un
incendio, «per paura» scappo.
Ma di fronte all'imprevedibile, di fronte all'indeterminato non posso scappare,
e allora il meccanismo che si attiva non è quello «difensivo» della paura, ma
quello «paralizzante» dell'angoscia che svela la vulnerabilità della nostra
tecnologia, arresta lo sviluppo della nostra economia, intimorisce il mondo
della vita che si fa più prudente, più cauto, più riparato, meno espansivo,
più contratto.
Per uscire dall'angoscia dell'imprevedibile gli uomini dell'Occidente hanno
inventato prima le religioni, per poter attribuire gli eventi agli dei, che con
le preghiere e i sacrifici si potevano condizionare. Poi, quando il cielo si è
fatto vuoto, la filosofia ha fornito all'umanità occidentale quello strumento
che consente di attribuire ogni evento ad una causa. Il principio di causalità,
che tutti noi conosciamo come un principio logico, è in realtà una difesa
dall'angoscia dell'imprevedibile, perché quando posso leggere un evento come
l'effetto di una causa, conoscendo la causa non mi spavento di fronte
all'evento.
La scienza moderna ha perfezionato questo principio, l'ha diffuso, l'ha reso
mentalità comune, l'ha trasformato nel fondamento della nostra sicurezza.
Il terrorismo, in una piccola frazione di tempo, ha fatto sapere all'Occidente
quanto precari sono i pilastri della sua fiducia nel domani, se è vero che la
sua tecnologia, espansa fino alla zona più remota della terra, è un apparato
potentissimo ma anche fragilissimo, e che la sua economia, espansa anch'essa
fino alla zona più remota della terra, può crollare non per ragioni
economiche, ma per quel sentimento primitivo che è l'angoscia
dell'imprevedibile.
Tutto può accadere senza regole di previsione e di leggibilità. Perfino le
antiche malattie del passato, da cui l'Occidente s'è liberato grazie al lavoro
della sua scienza, rientrano tra le possibilità del futuro, come se il tempo,
potentissima categoria antropologica che scandisce in successione il passato, il
presente e il futuro, subisse un'inversione di rotta, e offrisse come futuro
quel che pensavamo d'aver lasciato definitivamente alle nostre spalle come
passato remoto definitivamente congedato.
Ma ad aggravare lo scenario dell'imprevedibile non è solo l'illeggibilità del
futuro e la possibile regressione del tempo che cade su una condizione psichica,
quella occidentale, che ormai s'era abituata a considerare il tempo solo sotto
le categorie dello sviluppo e del progresso, quindi come assoluto futuro che,
senza viverlo brucia il presente, e senza esitazione liquida il passato nello
scenario del «sorpassato».
Ad aggravare lo scenario dell'imprevedibile, vera fonte dell'angoscia, è
assistere al venir meno di quello schema di lettura che, dall'alba della vicenda
umana, consentiva di prevedere le mosse del nemico, ipotizzando che chi vuol
uccidere si muove cercando di salvare la propria vita. Questo schema, che
poggiando su quella solida base che è l'istinto biologico di conservazione,
consentiva ai belligeranti di prevedere le rispettive mosse, nel caso
dell'azione terroristica non vale. Qui l'idea, il progetto, la fede, l'utopia,
la follia, comunque si vogliano chiamare queste espressioni «culturali» perché
«ideali» , hanno il sopravvento sulla «base biologicoistintiva» che si
suppone comune a tutti gli uomini, e che di solito svolge un ruolo di
ridimensionamento dell'idea, del progetto, della fede, dell'utopia, della
follia. Il terrorista sa di dover morire e compie comunque il suo atto. Così
facendo abbatte d'un colpo tutte le difese dell'avversario, perché queste sono
preordinate fino a quel limite che è segnato dalla convinzione che anche il
nemico vuole salvare la sua vita.
La dimensione suicidaria toglie anche quest'ultimo criterio di leggibilità,
quello finora considerato il più sicuro, perché ancorato alla base biologica
della vita umana. E allora l'angoscia, questo sentimento primordiale, per
difendersi dal quale l'umanità ha inventato l'intera sua storia, non può che
espandersi e moltiplicarsi ossessivamente in uno scenario dove gli oggetti più
innocui possono assumere le sembianze del pericolo, mentre i volti meno
familiari quelle inquietanti del sospetto.
La condizione d'assedio, più che territoriale, è psichica, e quando è
imprigionata l'anima, come si fa a produrre cultura, arte, scienza, musica? E
quale linguaggio hanno a disposizione gli affetti, gli amori, le speranze, i
progetti, i dolori? Ma soprattutto di quali strumenti dispone la nostra psiche
per trattare la dimensione dell'imprevedibile con cui noi occidentali non
abbiamo più consuetudine dall'alba della nostra storia? La forma che il tempo
ha assunto a partire dall'11 settembre obbliga noi occidentali a familiarizzare
con l'imprevedibile e a prenderci cura di un sentimento che pensavamo d'aver da
tempo liquidato. E questo è possibile solo con un lavoro dell'anima che
dobbiamo richiamare dalla sua distrazione e dalla sua dissipazione in cui da
tempo la lasciavamo vagare, fino al suo smarrimento nel rumore del mondo che
moltiplicavamo, per non affogare in quella che fino a ieri percepivamo come sua
monotonia. Non è un lavoro da poco, sappiamo però che è un lavoro urgente.
DA LA REPUBBLICA 12/10/01
Scenari
di una guerra globale
Le idee
UMBERTO ECO
LA QUESTIONE che agita la coscienza di
tutti in questi giorni non è se il terrorismo sia bene o male e se vada
debellato, anche in modo violento: su questo, almeno in occidente e in molti
paesi arabi, il consenso è unanime, e persino un pacifista ammette che una dose
di violenza sia indispensabile in ogni reazione di legittima difesa. Altrimenti
non dovrebbero esistere neppure le forze di polizia, e non si dovrebbe usare
violenza a chi sta sparando sulla folla. I veri problemi sono altri due: se la
guerra sia la forma giusta di violenza e se lo scontro che ci attende debba
diventare uno scontro di civiltà, o di culture che dir si voglia, ovvero una
guerra tra oriente e occidente. D'ora in poi userò l'espressione "guerra
E/O" per comodità, così come durante la guerra fredda, con molta
flessibilità geografica, si consideravano Est la Cecoslovacchia e Ovest la
Finlandia, Est la Cina e Ovest il Giappone. E naturalmente, parlando di un
confronto tra mondo cristiano e mondo musulmano, metto tra i cristiani tutti gli
occidentali, anche gli atei e gli agnostici, così come nel mondo musulmano
porremo anche fedeli di poca fede, che bevono vino di nascosto curandosi
pochissimo del Corano.
Da un lato le operazioni di guerra possono spingere le masse fondamentaliste a
oriente a prendere il potere nei vari stati musulmani, anche quelli che oggi
appoggiano gli Stati Uniti, dall'altro, l'intensificarsi di attentati
insostenibili può spingere le masse occidentali a considerare l'Islam nel suo
complesso come il nemico. Dopo di che si avrebbe lo scontro frontale,
l'Armageddon decisivo, l'urto finale tra le forze del Bene e quelle del Male (e
ciascuna parte considererebbe male la parte opposta). Non è uno scenario
impossibile. Quindi, come tutti gli scenari, deve essere delineato sino alle sue
ultime conseguenze.
Ammetto che per farlo bisogna esercitare l'arte della fantascienza, ma anche il
crollo delle due torri era stato anticipato da molta fantascienza
cinematografica, e dunque gli scenari fantascientifici, se pure non dicono
quello che necessariamente avverrà, certamente servono a dire quello che
potrebbe avvenire.
Scontro frontale, dunque, come nel passato. Ma nel passato c'era un'Europa ben
definita nei suoi confini, con il Mediterraneo tra cristiani e infedeli, e i
Pirenei che tenevano isolata la propaggine occidentale del continente, ancora in
parte araba. Dopo di che lo scontro poteva assumere due forme, o l'attacco o il
contenimento.
L'attacco è stato costituito dalle Crociate, ma si è visto che cosa è
successo. L'unica crociata che ha portato a una effettiva conquista (con
l'installazione di regni franchi in Medio Oriente) è stata la prima. Poi per un
secolo e mezzo (tornata Gerusalemme in mano ai musulmani) ce ne sono state altre
sette, senza considerare spedizioni fanatiche e dissennate come la cosiddetta
crociata dei fanciulli. In ciascuna di esse la risposta all'appello di San
Bernardo o dei pontefici è stata stanca e confusa, la seconda crociata era male
organizzata, la terza ha visto il Barbarossa morire per strada, francesi e
inglesi arrivare sulle coste nemiche e, dopo qualche conquista e qualche
patteggiamento, tornarsene a casa. Nella quarta i cristiani si sono dimenticati
Gerusalemme e si sono fermati a saccheggiare Costantinopoli. La quinta e la
sesta sono state praticamente due viaggi di andata e ritorno. Nella settima e
nell'ottava il buon San Luigi si è battuto bene sulle coste, ma non ha ottenuto
nulla di consistente, ed è morto laggiù. Fine delle crociate.
L'unica operazione militare riuscita è stata più tardi la Reconquista della
Spagna, ma non era una spedizione oltremare, bensì una lotta di riunificazione
nazionale (un poco come il Piemonte col resto dell'Italia), che non ha risolto
il confronto tra i due mondi, bensì ne ha semplicemente spostato la linea di
confine.
Quanto al contenimento, si sono fermati i turchi davanti a Vienna, si è vinto a
Lepanto, si sono erette torri sulle coste per avvistare i pirati saraceni, e si
è andati avanti così per qualche secolo. I turchi non hanno conquistato
l'Europa, ma il confronto è rimasto.
Dopo di che si assiste negli ultimi secoli a un nuovo confronto: l'occidente
attende che l'oriente s'indebolisca e lo colonializza. Come operazione è stata
certamente coronata da successo, e per lungo tempo, ma i risultati li vediamo
oggi. Il confronto non è stato eliminato, bensì acuito.
Si potrebbe dire che in fin dei conti l'occidente ha avuto la meglio, l'Europa
non è stata invasa dagli uomini col turbante e la scimitarra, e questi, a casa
propria, sono stati indotti ad accettare in gran parte la tecnologia
occidentale. Potrebbe essere considerato un successo, se non fosse che è grazie
alla tecnologia occidentale che Bin Laden è riuscito a far crollare le due
torri. Immagino che i produttori occidentali di armi, ogni volta che riescono a
vendere alta tecnologia bellica in oriente, si freghino le mani e per celebrare
acquistino una nuova barca lunga cento metri. Se vi va bene così, allora
allegri ragazzi, avete vinto.
Ma sino ad ora ho mancato alla mia promessa, ed ho parlato di storia, non di
fantascienza. Passiamo alla fantascienza, che ha il consolante vantaggio di non
essere ancora vera nel momento in cui viene immaginata.
Allora, si ripropone lo scontro frontale, ovvero la Guerra E/O. Che cosa avrebbe
questo scontro di diverso rispetto ai confronti del passato? Ai tempi delle
crociate il potenziale bellico dei musulmani non era tanto dissimile da quello
dei cristiani, spade e macchine ossidionali erano a disposizione di entrambi.
Oggi l'occidente è in vantaggio quanto a tecnologia di guerra. E' vero che il
Pakistan, in mano ai fondamentalisti, potrebbe usare l'atomica, ma al massimo
riuscirebbe, diciamo, a radere al suolo Parigi, e subito le sue riserve nucleari
verrebbero distrutte. Se cade un aereo americano ne fanno un altro, se cade un
aereo siriano avrebbero difficoltà ad acquistarne uno nuovo in occidente. L'Est
rade al suolo Parigi e l'Ovest getta una bomba atomica sulla Mecca. L'Est
diffonde il botulino per posta e l'Ovest gli avvelena tutto il deserto d'Arabia,
come si fa coi pesticidi nei campi sterminati del Midwest, e muoiono persino i
cammelli. Benissimo. Non sarebbe neppure una cosa troppo lunga, un anno al
massimo, poi si continua tutti con le pietre, ma loro avrebbero forse la peggio.
Salvo che c'è un'altra differenza rispetto al passato. Ai tempi delle crociate
i cristiani non avevano bisogno del ferro arabo per fare le loro spade, né i
musulmani del ferro cristiano. Oggi invece anche la nostra tecnologia più
avanzata vive sul petrolio, e il petrolio ce l'hanno loro, almeno per la maggior
parte. Loro da soli, specie se gli bombardi i pozzi, non ce la fanno più ad
estrarlo, ma noi rimaniamo senza. A meno che non si paracadutino milioni di
soldati occidentali a conquistare e presidiare i pozzi, ma a quel punto
sarebbero loro a farli saltare, e poi una guerra per via di terra, da quelle
parti, non è così facile.
L'occidente dovrebbe dunque ristrutturare tutta la sua tecnologia in modo da
eliminare il petrolio. Visto che ancora oggi non siamo riusciti a fare un
automobile elettrica che vada a più di ottanta chilometri all'ora e non
impieghi una notte per ricaricarsi, non so quanto tempo questa riconversione
prenderà. Anche a propellere aerei e carri armati, e a far funzionare le nostre
centrali elettriche, a energia atomica, senza calcolare la vulnerabilità delle
nuove centrali, ci vorrebbe molto tempo. Poi vorrei vedere se le Sette Sorelle
ci stanno. Non mi stupirei se dei petrolieri occidentali, pur di continuare a
fare profitti, fossero pronti ad accettare un mondo islamizzato.
Ma la cosa non finisce qui. Ai bei tempi andati i saraceni stavano da una parte,
oltremare, e i cristiani dall'altra. Se durante le crociate due arabi (magari
travestiti) avessero tentato di erigere una moschea a Roma, gli avrebbero
tagliato la gola e non ci avrebbero più riprovato. Oggi invece l'Europa è
piena di islamici, che parlano le nostre lingue e studiano nelle nostre scuole.
Se già oggi alcuni di loro si allineano coi fondamentalisti di casa loro,
immaginiamoci se si avesse la Guerra E/O. Essa sarebbe la prima guerra col
nemico sistemato in casa e assistito dalla mutua.
Si badi bene che lo stesso problema si porrebbe al mondo islamico, che ha a casa
propria industrie occidentali, e addirittura enclaves cristiane come l'Etiopia.
Siccome il nemico è per definizione cattivo, tutti i cristiani d'oltremare li
diamo per perduti. La guerra è guerra. Sono già in partenza carne da foiba.
Poi li canonizzeremo tutti in piazza San Pietro.
Che cosa facciamo invece a casa nostra? Se il conflitto si radicalizza oltre
misura, e crollano altri due o tre grattacieli, o addirittura San Pietro, si avrà
la caccia al musulmano. Una sorta di notte di San Bartolomeo, o di Vespri
Siciliani: si prende chiunque abbia i baffi e la carnagione non chiarissima e lo
si sgozza. Si tratta di ammazzare milioni di persone, ma ci penserà la folla
senza scomodare le forze armate. Naturalmente bisognerebbe vedere se si sgozza
anche un arabo cristiano, o un siciliano che non ha gli occhi azzurri da
normanno, ma noi siamo così politicamente corretti che sulla carta d'identità
non sta scritto se sei cristiano o musulmano, e poi bisogna diffidare anche di
europei biondi che si sono fatti infedeli. Come si era detto nella guerra contro
gli albigesi, per ora ammazzateli tutti, poi Dio riconoscerà i suoi. D'altra
parte non puoi rischiare di fare una guerra planetaria e lasciar rimanere a casa
tua anche un solo fondamentalista che poi va a fare il kamikaze in una stazione.
Potrebbe prevalere la ragione. Non si sgozza nessuno. Ma anche i liberalissimi
americani, all'inizio della seconda guerra mondiale, hanno messo in campo di
concentramento, sia pure con molta umanità, tutti i giapponesi che avevano in
casa, anche se erano nati laggiù. Quindi (e sempre senza guardare per il
sottile) si vanno a individuare tutti coloro che potrebbero essere musulmani - e
se sono, per esempio, etiopici cristiani pazienza, Dio riconoscerà i suoi - e
li si mettono da qualche parte. Dove? A fare dei campi di prigionia, con la
quantità di extracomunitari che girano per l'Europa, si avrebbe bisogno di
spazio, organizzazione, sorveglianza, cibo e cure mediche insostenibili, senza
contare che quei campi sarebbero delle bombe pronte a esplodere, se appena ne
metti mille insieme, e non puoi fare dei campi per gruppi d quattro persone alla
volta.
Oppure li si prende, tutti (e non è facile, ma guai se ne resta appena uno, e
bisogna farlo subito, in un colpo solo), li si carica su una flotta di navi da
trasporto e si scaricano... Dove? Si dice "scusi signor Gheddafi, scusi
signor Hussein, mi prende per favore questi tre milioni di turchi che cerco di
sbatter fuori dalla Germania"? L'unica soluzione sarebbe quella degli
scafisti, li si buttano a mare. Milioni di cadaveri a galla sul Mediterraneo.
Voglio vedere il governo che decide di farlo, altro che desaparecidos, persino
Hitler massacrava poco alla volta e di nascosto.
Come alternativa, visto che siamo buoni, li lasciamo stare tranquilli a casa
nostra, ma dietro a ciascuno mettiamo un agente della Digos che lo sorvegli. E
dove trovi tanti agenti? Li arruoli tra gli extracomunitari? E se poi ti viene
il sospetto che è venuto negli Stati Uniti, dove le compagnie aeree, per
risparmiare, facevano fare i controlli aeroportuali a immigrati dal terzo mondo,
e poi gli è venuto in mente che non fossero affidabili?
Naturalmente tutte queste riflessioni potrebbe farle, dall'altra parte della
barricata, un musulmano ragionevole. Il fronte fondamentalista non sarebbe certo
del tutto vincente, una serie di guerre civili insanguinerebbe i loro paesi
portando a orribili massacri, i contraccolpi economici ricadrebbero anche su di
loro, avrebbero meno cibo e meno medicine delle poche hanno oggi, morirebbero
come mosche. Ma se si parte dal punto di vista di uno scontro frontale, non ci
si deve preoccupare dei loro problemi bensì dei nostri.
Tornando dunque all'Ovest, si creerebbero all'interno del nostro schieramento
gruppi filoislamici non per fede ma per opposizione alla guerra, nuove sette che
rifiutano la scelta dell'occidente, ghandiani che incrocerebbero le braccia e si
rifiuterebbero di collaborare coi loro governi, fanatici come quelli di Waco che
inizierebbero (senza essere fondamentalisti musulmani) a scatenare il terrore
per purificare l'occidente corrotto. Ma non è indispensabile pensare solo a
queste frange. Sto pensando alla maggioranza.
Accetterebbero tutti la diminuzione dell'energia elettrica senza neppure poter
ricorrere alle lampade a petrolio, l'oscuramento fatale dei mezzi di
comunicazione e quindi non più di un'ora di televisione al giorno, i viaggi in
bicicletta anziché in automobile, i cinematografi e le discoteche chiuse, la
coda ai McDonalds per avere la razione giornaliera di una fettina di pane di
crusca con una foglia d'insalata, insomma la cessazione di una economia della
prosperità e dello spreco? Figuriamoci che cosa importa a un afgano o a un
profugo palestinese vivere in economia di guerra, per loro non cambierebbe
nulla. Ma noi? A quale crisi di depressione e demotivazione collettiva si
andrebbe incontro? Saremmo disposti ad accettare l'appello di un nuovo Churchill
che ci promettesse lacrime e sangue? Ma se noi italiani, dopo vent'anni di
propaganda fascista sulla nostra missione di civiltà, arrivati a un certo punto
eravamo contenti di perdere la guerra purché finissero i bombardamenti! Va bene
che noi aspettavamo in cambio gli americani buoni con le loro razioni, mentre
ora si aspetterebbero i saraceni cattivi che ammazzerebbero preti e frati e
metterebbero il velo alle nostre donne, ma saremmo così motivati da accettare
ogni sacrificio?
Non si creerebbero per le strade di Europa cortei di oranti che attendono
disperati e passivi l'Apocalisse? Abbiamo ammirato la tenuta e l'energia
patriottica degli americani dopo la tragedia dell'undici settembre ma, con tutto
lo sdegno e la solidarietà che provano, hanno ancora la loro bistecca, la loro
automobile e, per chi ha coraggio, le loro linee aeree. E se la crisi
petrolifera provocasse il black out, la mancanza di Coca Cola e di Big Mac, la
visione di supermarket deserti con appena là un pomodoro e qua una scatoletta
di carne scaduta, come si è visto in certi paesi dell'est europeo nei momenti
di massima crisi? Quanto si identificherebbero ancora con l'occidente i neri di
Harlem, i diseredati del Bronx, i chicanos della California, i Caldei dell'Ohio
(sì, ci sono e li ho visti, coi loro abiti e i loro riti)?
L'occidente (e l'America più di tutti) ha fondato la sua forza e la sua
prosperità accogliendo a casa propria gente di ogni razza e colore. In caso di
confronto frontale, quanto reggerebbe il melting pot?
Infine, che cosa farebbero i paesi dell'America Latina, dove molti, senza essere
musulmani, hanno elaborato sentimenti di rancore verso i gringos, tanto che
anche laggiù, dopo la caduta delle due torri, c'è chi sussurra che i gringos
se la sono cercata?
Insomma, la guerra E/O potrebbe certo vedere un Islam meno monolitico di quello
che si pensa, ma certo vedrebbe una cristianità frammentata e nevrotica, dove
pochissimi si candiderebbero a essere i nuovi Templari, ovvero i kamikaze
dell'occidente.
Questi scenari di fantascienza non li sto inventando io, ora. Anche senza
prevedere una guerra totale, ma soltanto un black out accidentale, una trentina
di anni fa Roberto Vacca aveva delineato scenari apocalittici nel suo «Il
medioevo prossimo venturo».
Ripeto: ho delineato uno scenario fantascientifico, e naturalmente spero come
tutti che non si avveri. Ma era per dire che, ragionando a filo di logica,
questo potrebbe avvenire se scoppiasse una guerra E/O. Tutti gli incidenti che
ho previsto derivano dal fatto che esiste la globalizzazione, e in questo quadro
interessi ed esigenze delle forze in conflitto sarebbero strettamente
intrecciati, come già lo sono, in un gomitolo che non può essere sgomitolato
senza distruggerlo.
Il che significa che nell'era della globalizzazione una guerra globale è
impossibile, ovvero che porterebbe alla sconfitta di tutti.
DA LA REPUBBLICA 15/10/01
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